Colonne terminali della "Via Appia" - Foto coll. Mogavero-Pennetta
Dalla preistoria ai Messapi e ai Romani
Le testimonianze più antiche rinvenute nel territorio del Comune risalgono al paleolitico (età della pietra antica), e sono conservate nel Museo Archeologico Provinciale intitolato a Francesco Ribezzo, di Francavilla Fontana, archeologo e glottologo insigne (1875-1952). I reperti più abbondanti provengono da un villaggio dell'età del bronzo media (XVI sec. a. C.), scoperto a Punta le Terrare, che si trova a sud del porto medio di Brindisi: un terrapieno di pietre eretto a difesa di un gruppo di capanne, nelle quali sono stati trovati pure frammenti di ceramica micenea, a conferma delle affermazioni di Erodoto e degli stretti rapporti da sempre intercorsi con il mondo greco. Del periodo messapico (VII-III sec. a. C.) sono conservate al Museo le "trozzelle": le anfore per acqua caratterizzate da alte anse verticali che terminano spesso con quattro o più rotelle, a forma di carrucola, dalla cui voce latina 'trochlea' deriva il loro nome. Resti delle mura megalitiche dei Messapi si trovano in via Camassa e corte Capozziello e in un'abitazione privata di via Montenegro.
Moltissime sono le testimonianze di epoca romana (dal III sec. a. C. al IV d. C.), conservate sia nelle aree archeologiche di San Pietro degli Schiavoni (sotto il teatro sospeso), di via Casimiro, della piazzetta Virgilio, dov'erano le "colonne romane" (III sec. d. C., a giudicare dal capitello), e nei pressi di Porta Mesagne, ove sono i resti delle vasche per la decantazione delle acque provenienti dal pozzo di Vito; sia al Museo, che espone sculture in marmo e in bronzo, epigrafi e molte monete, tra cui quelle di bronzo del III sec. a. C. che hanno sul diritto la testa di Nettuno, e sul rovescio Falanto che cavalca un delfino e la scritta BRVN. Anticamente, tutte le città cercavano di far risalire le loro origini a un dio, e i primi abitanti di Brindisi diffusero la leggenda che il nome della città derivava dal nome del figlio di Ercole, Brento, che ne sarebbe stato il fondatore. Più concretamente, i geografi e gli storici greci e latini fanno derivare il nome Brun o Brunda dalla parola messapica che significava "testa di cervo", cui la forma del porto somiglia. Ma "brun" era anche la voce onomatopeica con cui s'indicava l'acqua, che circonda quasi completamente la città.
Porta Mesagne (detta anche Porta Napoli) - Foto coll. Nolasco
Dopo i Romani
Con l'Impero romano d'occidente, decaddero anche il porto e la città di Brindisi. Si ripresero, dopo alterne vicende, solo con i Normanni, cui si devono la prima fabbrica romanica della Cattedrale (1132), la chiesa di San Benedetto (di poco precedente al 1089) e il piccolo tempio di S. Giovanni al Sepolcro (inizi del XII secolo); con gli Svevi e Federico II, che fece costruire nel 1227, con il materiale ottenuto dalla demolizione dell'anfiteatro romano, il primo nucleo del Castello di terra; con gli Angioini, che per motivi militari resero di nuovo il porto praticabile alle grandi flotte, e gli Aragonesi, che fortificarono la città e fecero edificare nel 1481 il Castello Alfonsino. Ma 31 anni prima, nel 1450, il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo aveva fatto interrare nuovamente il canale per impedire ai Veneziani di impadronirsi di Brindisi (provocando così la malaria e l'elevata mortalità degli abitanti); e sei anni dopo un terremoto aveva quasi spopolato la città. Furono proprio i Veneziani, dal 1496, a far rifiorire l'economia brindisina, con la costruzione di cantieri navali e la ripresa dei traffici mercantili; ma il loro dominio durò solo 13 anni.
Il porto interno divenne nuovamente una palude con gli Spagnoli e i Borboni, e la malaria rese Brindisi pressoché inabitabile. I lavori per la riapertura del canale - il cui ruolo, come si è visto, è stato decisivo nella storia della città negli ultimi duemila anni - furono eseguiti in tre riprese: i primi, dal marzo 1776 al novembre 1778, a cura dell'ing. Andrea Pigonati, che non riuscirono però ad evitare un nuovo interramento; i secondi nel 1789, a cura degli ingg. Pollio e Forte, che non apportarono benefici di lunga durata; e gli ultimi, dal 1843 al 1847, affidati da Ferdinando II di Borbone al col. del Genio Albino Mayro, il quale, tenendo conto dei venti predominanti, orientò in modo diverso il canale (verso tramontana e non verso greco-levante, come aveva voluto Pigonati).
Le chiese
(coll. Nolasco)
I palazzi
Palazzo Granafei-Nervegna
(coll. Nolasco)
Il palazzo arcivescovile (già Seminario), del 1720, probabile opera dell'arch. Manieri, è il più importante monumento barocco della città; la facciata è decorata da otto statue che raffigurano l'Armonia, l'Etica, la Filosofia, la Giurisprudenza, la Matematica, l'Oratoria, la Poetica, la Teologia. La parte più antica si affaccia su vico Guerrieri: lungo il suo prospetto sono visibili gli archi ad ogiva e le merlature in rilievo. Nel cortile interno si affaccia la torre quadrangolare dell'Episcopio. La loggia Balsamo, che risale alla prima metà del XIV secolo, faceva probabilmente parte della zecca angioina. E' caratterizzata da mensole a gradoni con bizzarre figure d'uomini e animali, unite da archetti superiori. Nel palazzo Granafei-Nervegna, del XVI secolo, si fondono elementi rinascimentali e soluzioni barocche e manieriste. Eretto dalla famiglia Granafei, fu poi abitato dai Nervegna, l'ultimo dei quali fu un noto numismatico. Un'iscrizione latina, posta sulla facciata, dice fra l'altro "Il saggio costruisce la casa mentre lo stolto la distrugge" e "A che servono allo stolto le ricchezze dal momento che non può comprare la saggezza ? "
All'interno del palazzo Montenegro, del XVII secolo, di proprietà della Provincia, con grande balcone sostenuto da mensole decorate, fu rinvenuta un'iscrizione marmorea dedicata all'imperatore Traiano. Di un secolo dopo è il palazzo Perez, con ampio portale architravato; mentre il vicino e più antico palazzo degli Scolmafora, devastato da un incendio, fu ricostruito nel 1652.
In via Carmine è il palazzo Ripa, del sec. XVII, con ricco portale sormontato dallo stemma della famiglia Ripa, che ha urgente bisogno di essere restaurato e riutilizzato: una sede ideale per un museo di storia moderna e delle tradizioni locali.